Impiego dei lapidei nella Pieve di San Venerio in Antoniano (Migliarina, La Spezia)

Copertina

Copertina – Il prospetto absidale della Pieve di San Venerio in Antoniano, di Migliarina, in una fotografia storica (da AMBROSI, 1983).

Proemio

La Pieve di San Venerio in Antoniano è una delle chiese più antiche della Spezia (Copertina e Figura 1, la Pieve nel 1923).
Il primo edificio fu costruito su un fondo prediale romano. La Pieve è legata al culto di Venerio, il Santo anacoréta del Tino.
Il monumento è stato studiato in fasi e momenti differenti.
La prima citazione è del DE ROSSI (1706), mentre il primo scavo archeologico fu prodromico e coevo ai restauri eseguiti dalla Soprintendenza ai Monumenti della Liguria nel 1959 (Figura 2). In quel tempo fu chiamato il CIMASCHI (VECCHI, 1990) a dirigere gli scavi all’interno della chiesa. In realtà fu uno scavo condotto in condizioni di emergenza per la necessità di rimuovere il vecchio pavimento per sostituirlo con un nuovo piano pavimentale.
Le ultime indagini furono eseguite nel 1984-85 (Figura 3). La direzione fu affidata ad Eliana Maria VECCHI che, fra gli altri studi, richiese un’analisi petrologica e geologica dei lapidei di parte della struttura muraria meridionale dell’edificio (Figura 4).
Una recente visita alla Pieve, purtroppo per motivi non di studio, ha motivato il desiderio di questo articolo. È una memoria e un contributo agli studi interdisciplinari, all’entusiasmo per nuovi campi di applicazione e nuovi interessi.
Ma soprattutto è un ricordo indelebile di amicizia.

Analisi dei materiali impiegati nel paramento meridionale della Pieve di S. Venerio

L’analisi geologico-petrologica fu eseguita all’epoca dello scavo archeologico (1985) unicamente per via macroscopica. Per ciascuno dei conci fu definita la litologia. Quindi i materiali d’impiego furono suddivisi in macro-gruppi, in funzione della litologia e della formazione lito-stratigrafica di appartenenza/origine (Figura 5).
I materiali lapidei utilizzati sono stati, così, ricondotti a quattro gruppi principali:
– arenaria;
– calcare;
– calcare dolomitico;
– altri.
Nell’ultimo macro-gruppo sono stati compresi quelli di utilizzo raro o occasionale. Ad esempio vi è compreso un solo elemento di scisto ardesiaco, oppure quelli di evidente riuso come i frammenti di laterizio (Figura 4). Ancora vi compaiono quelli che per loro natura erano destinati a  impieghi  specialistici come i frammenti di lastre d’ardesia, testimoni di due livelli di copertura.
Dalla mortologia dei conci, la loro natura litologica e la loro disposizione, è stato possibile trarre alcune considerazioni preliminari, seppure con i limiti che la metodologia applicata imponeva.

Il paramento oggetto dello studio dei lapidei

Il campione di paramento (Figura 4) è rappresentativo delle strutture di epoca tardo protoromanica (VECCHI, 1986). Il campione è stato perimetrato, dietro indicazione degli archeologi, nella sezione superiore sinistra della parete meridionale esterna della chiesa (Figura 6 e Figura 7).
La fascia spigolare prossima alla facciata è apparsa subito anomala rispetto alla restante porzione di paramento. Ciò confermava di essere al cospetti di una ricucitura eseguita in epoca posteriore e certo senza che l’intervento avesse valore di restauro, almeno nell’accezione moderna del termine.
L’intervento fu, infatti, realizzato impiegando conci di dimensioni più piccole rispetto a quelle originali, aventi forma irregolare e con prevalenza dell’uso di arenaria. Gran parte di tali conci erano stati ottenuti sbozzando e riquadrando grossi ciottoli raccolti in area di pianura alluvionale. A conferma l’aspetto di molti elementi con evidenza di frequenti spigoli arrotondati. Il rimanente corpo del paramento ha visto l’impiego di un maggior numero di conci calcarei, appartenenti ad ambedue i tipi litologici identificati. Tuttavia, anche in questo corpo e stato possibile distinguere due zone.
La prima è la fascia inferiore nella quale i corsi orizzontali, fino all’altezza dell’arco e del primo testimone di copertura (tettoia esterna?) sono apparsi molto regolari, a conci ben squadrati e disposti in modo serrato. Questi sono stati prodotti da calcare grigio.
La seconda è la fascia superiore dove i conci sono compresi  tra i precedenti e la copertura, Presentano spessore maggiore alla media pur mantenendo un buon grado di riquadratura e sono stati impostati con assetto molto serrato. Questi conci sono stati prodotti con materiali di varia litologia.

La frequenza dei lapidei in opera

Per quanto riguarda la frequenza dei materiali in uso, è stato riscontrato un 26% di conci in arenaria, un 33% di conci in calcare dolomitico ed un 41% di conci in calcare grigio.
Gli elementi acquisiti hanno consentito di ipotizzare che i costruttori del periodo tardo-protoromanico abbiano dato intenzionalmente la preferenza all’impiego di materiale calcareo. È da notare che si tratta di materiale che doveva essere importato e non cavato in loco, al contrario della più facilmente ed economicamente reperibile arenaria. In ogni caso, di quest’ultima, non ne disdegnavano l’impiego seppure casualmente, come evidenzia l’occasionale presenza di qualche concio. 
Quest’ultima considerazione, unita alla presenza di alcuni conci riquadrati di provenienza alluvionale, ha suggerito che non sia stata osservata una partcolare ricerca durante l’edificazione del monumento.

Immagine citata nel testo

Figura 4 – Rilievo originale del paramento murario eseguito in fase di scavo (disegno MDS, 1985).
Legenda:
1. ARENARIA TIPO GOTTERO O MACIGNO: si tratta in genere di grossi ciottoli provenienti da depositi alluvionali fluviali (giacitura secondaria) riquadrati più o meno grossolanamente. Si presenta a colorazione marroncina chiara se alterata (A1) o grigia se fresca (A2); talvolta sono presenti patine di alterazione arrossate (A3). Si tratta certamente di elementi di riuso. La granulometria e la composizione possono variare: si distinguono elementi a presenza micacea (Am) grana fine (Am1) e patine superficiali rosse (Am2) oppure a composizione quarzosa in facies di grovacca arossata superficialmente (As).
2. ARDESIA: frammenti di abbadini. Si distinguono una copertura più antica, in corrispondenza dell’arco, ed una più recente posta in opera con abbondante malta.
3. SCISTO ARDESIACO: presente in un unico elemento di forma grossolana e provenienza incerta.
4. CALCARE GRIGIO: in conci eterodimensionali e generalmente ben riquadrati. Spesso presentano fessure di 1-3 mm rinsaldate da materiali vari (1 calcite; 2 quarzo; 3 indeterminato violaceo) e comunque meno erodibili presentandosi in rilievo. Il calcare può presentare patine di alterazione pulverulente marroncine (Gm) con tonalità fino al bruno (Gb),violacee (Gv) o arrossate (Ca). Localmente è presente in facies tipo calcare marnoso (GM)
5. CALCARE DOLOMITICO: alcuni conci presentano vacuoli, cariature e strutture tipo suture cerebrali caratteristiche dei calcari maiolica. Talvolta assumono struttura brecciata (Mb) o presentano patine superficiali di alterazione violacee (Mv) o marroncine (Mn).
6. FRAMMENTI DI MATTONE.
7. MALTA.

Verifiche e conferme su altre porzioni strutturali

Le osservazioni precedenti si rafforzano allargando le osservazioni ad altre parti dell’edificio.
Un’analisi del coevo paramento settentrionale (Figura 8) ha sostanzialmente confermato la descritta situazione. Di conseguenza è apparso interessante e utile applicare la medesima metodologia di indagine su campioni di altre due porzioni di strutture anche di differenti uso, età e posizione.
Sono stati scelti due campioni posizionati sulla parete esterna del sepolcro a pareti semi interrate con unica sepoltura gotica (il primo, Figura 9) e sulla fondazione di epoca protoromantica della torre (il secondo, Figura 7). Tale scelta è stata fatta nella consapevolezza che nel primo caso non si trattava di un elemento a funzione portante e che nel secondo caso era un elemento realizzato da un cantiere precedente alla stessa chiesa.

I litoidi dei paramenti del sarcofago gotico e della fondazione della torre

Nel sarcofago gotico (Figura 9 e Figura 17) è stato impiegato materiale molto eterogeneo sia dal punto di vista qualitativo che dimensionale. Rarissimi i conci regolari rispetto alla prevalenza di quelli casualmente irregolari. Si è quindi evidenziato l’impiego di materiale raccolto localmente, in ambiente di piana alluvionale. Occasionalmente sono stati anche inseriti elementi di riutilizzo da possibili costruzioni prossime, come un frammento lavorato a scalpello.
Completamente differente il paramento protoromanico. In questo caso si è palesata la scelta cosciente dei costruttori di impiegare conci in arenaria ben squadrati, seppure di dimensioni affatto monotone, disposti in corsi regolari. Solo eccezionalmente sono stati inseriti conci calcarei, comunque sempre ben squadrati. Gli occasionali frammenti di tegoloni hanno avuto l’evidente scopo di pareggiare e regolarizzare l’altezza e l’andamento del corsi.

Perché l’arenaria

In conclusione, una riflessione sulla possibile fonte di approvvigionamento dei litoidi per i conci della fondazione della torre e per gli scampoli del paramento protoromanico tardo.
Nel primo caso l’arenaria poteva essere reperita anche in banco, cavata e lavorata nell’ambito di una zona piuttosto ampia, ma circostante l’insediamento. Più difficile è capire e giustificare l’impiego del calcare e/o del calcare dolomitico reperibili soltanto lontano dal sito d’impiego. Materiali di importazione e ciò comportava tutta una serie di conseguenze logistiche ed economiche a cominciare dal trasporto. E per una tale operazione non c’erano neppure particolari esigenze strutturali da soddisfare. L’arenaria è sempre stata impiegata anche per gli elementi strutturali, maggiormente esposti o soggetti ad usura in gran parte della Liguria Orientale (Figura 10 e Figura 11). 
Gli esempi di impiego sia della ligure Arenaria del Gottero che della toscana Arenaria Macigno sono diffusissimi ed anche molto antichi (Figura 12, Figura 13, Figura 14 e Figura 15). In questo, oltre alla facile reperibilità di strati e banchi compatti e resistenti, ha giocato un ruolo fondamentale la loro capacità di lasciarsi sfaldare in conci regolari lungo i tre sistemi di frattura naturale che le interessano. 

Una possibile spiegazione sull’uso del calcare

I motivi della scelta di impiegare il calcare si sono palesati correlando la natura geologica del Golfo della Spezia con l’ubicazione dei beni fondiari, delle chiese e delle decime della Pieve di San Venerio (Figura 16).
È risultata una certa frequenza nella sovrapposizione fra i possedimenti ecclesiastici ed il dominio dei calcari e calcari dolomitici del Promontorio Occidentale della Spezia.
Per contro, su quello Orientale i beni fondiari risultavano ovunque in rapporti diretti con il dominio delle formazioni arenacee.

Seppure non possa assumere valore di prova, la situazione di Figura 16 evidenzia che, a parte di distanza, sarebbe stato comunque possibile e ragionevolmente comodo l’approvvigionamento di calcare dal Promonitorio Occidentale e dall’isola del Tino. In particolare è fondamentale la possibilità del trasporto marittimo, ma soprattutto la diffusione dei possedimenti o l’interesse diretto sul terreni di quell’ambito territoriale.

Isola del Tino, Portovenere, Porto Venere, provincia della Spezia 19025, Italia

Bibliografia

AMBROSI, A. C. (1983). Straviario. Tutte le vie grandi e piccole, tutte le piazze belle e brutte della Spezia vecchia e nuova. In A. C. AMBROSI (a cura di), La Spezia, Cassa di Risparmio della Spezia.
DEL SOLDATO, M. e PINTUS, S. (1990). Analisi dei materiali impiegati nel paramento meridionale della Pieve di San Venerio. In P. MELLI (a cura di), Archeologia in Liguria III.2 – Scavi e scoperte 1982-1986, (1987), III (2), pp. 248-250.
VECCHI, E. M. (1986). La chiesa di S.Venerio in Antoniano. In Atti del Convegno S. Venerio del Tino: vita religiosa e civile tra isole e terraferma in età medievale. Lerici, La Spezia, Portovenere, 18-20 settembre 1982. La Spezia – Sarzana, Istituto Internazionale di Studi Liguri – Sezione Lunense, p. 249-308.
VECCHI, E. M. (1990). Migliarina. In P. MELLI (a cura di), Archeologia in Liguria III.2 – Scavi e scoperte 1982-1986 (1987), III (2), pp. 245-248.
Per ulteriore bibliografia

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