Copertina – Tempo: anno 1915. Luogo: la spiaggia di Fiumaréta, ma anche le pinete del lido lunense e della Versilia. La raccolta di rami secchi e arbusti incolti, i falaschi dalla gente di Ameglia, Ortonovo, Nicola, nella piana di Luni, qui in una foto Alinari.
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Preambolo
Settembre, bisognava prepararsi per l’inverno. Mio babbo ordinava la legna ad un commerciante boscaiolo che l’aveva tagliata e preparata (Figura 13). Arrivava il camion e la scaricava alla rinfusa (Figura 1). Poi, con pazienza, da bimbo, lo aiutavo a portare i ciocchi a sezione triangolare in cantina. Pochi alla volta, mentre lui utilizzava una grossa cesta. Si sistemavano ordinatamente, addossati alla parete più lunga, incastrandoli a mo’ di muretto (Figura 2). I rametti fini e la ramaglia morbida era tenuta da parte, per accendere la stufa di ghisa (Figura 3 e Figura 4). Il pezzame piccolo, cioè quello ricavato dai rami, era adatto al primo fuoco. E poi c’erano i pezzi più grossi, duri e cilindrici, che venivano accantonati e, in seguito, tagliati a spicchi.
Ma c’era anche la raccolta della legna sulle spiagge (Copertina), ormai senza più bagnanti, o nei greti dei fiumi (Figura 5). Erano tronchi e ramaglie pulite, senza corteccia, portate dalle mareggiate (Figura 6 e Figure 7) estive o dalle piene autunnali. Fortunatamente erano un aiuto e non una disgrazia come accaduto durante le alluvioni degli ultimi decenni (Figura 8 e Figura 9).
Il carbone di miniera e carbone di legna
Esiste il sale di miniera (Salgemma e acqua salsa) sfruttato fin dall’antichità ed esiste il sale marino, ricavato dall’acqua di mare.
Del primo rimangono le antiche miniere in Austria (miniera di Berchtesgaden-Hallstat), in Svizzera (Miniera di Bex, il sale delle Alpi:1- la leggenda del sale di Bex (Cantone Vaud), 2- la prima produzione delle miniere e delle saline, 3- da leggenda a impresa mineraria strategica), ma anche in Italia, in Sicilia (Agrigento e Palermo).
Del secondo rimangono il ricordo di possibili saline storiche (Chiavari e Marinella di Sarzana) o l’attività ancora attuale di quelle Siciliane (Mozia, Marsala).
Analogamente per il carbone, sono ben vividi nella mente i ricordi delle miniere, ma soprattutto per le condizioni, al limite dell’umano, che sopportavano i minatori e per i frequenti incidenti mortali che li colpivano (Marcinelle; Figura 10, Figura 11 e Figura 12) o, più vicine noi, le miniere di Lignite di Luni e di Molicciara.
Ma il carbone era anche un prodotto artigianale legato alla terra, ad una lunga tradizione del saper fare tradizionale, oggi praticamente scomparsa.
Questa storia che viene da lontano cercherà di ricordare gli uomini (i carbonai), i loro cantieri (le carbonaie) e la loro capacità professionale.
Dal tardo medioevo, in Valsesia (Ossola) produzione di carbone vegetale ed immigrazione di carbonai
Un primo riferimento alla produzione di carbone vegetale si trova negli statuti medievali di Quarona (VC), ma giunti a noi in una trascrizione seicentesca. Era una produzione strettamente locale, tanto che viene specificato …che niuno possa far carboni per causa di venderli ad alcuno che non sii della vicinanza di Quarona e chi contrafarà … componga per il bando per ogni volta et per cadun arbore soldi cinque imperiali… (REGIS e FANTONI, 2023, p. 39).
Molto più tarda è la prima attestazione di vendita di carbone. Risale al 1588 ed è …un obbligo di pagamento di Antonio Babbini, di Biella abitante a Varallo, verso Giuseppe Ferro, di Prato Sesia abitante a Varallo, per l’acquisto di carbone… (REGIS e FANTONI, 2023, p. 40).
La presenza di attività minerarie e metallurgiche sul territorio valsesiano ebbe un ruolo decisivo sulla locale produzione di carbone, fra Seicento ed Ottocento. La Valsesia era nota per le antiche mineralizzazioni aurifere, ma poi anche per quelle di manganese, rame e ferro. La richiesta di carbone arrivava quindi dalle relative e conseguenti fonderie e fucine.
La locale filiera del carbone divenne molto articolata, con la partecipazione di imprenditori e professionisti differenti. Impresari minerari e intermediari si dedicavano all’acquisto dei boschi da privati e comunità di villaggio. Boscaioli e carbonai eseguivano il taglio dei boschi, mentre solo i secondi (generalmente dipendenti degli imprenditori) provvedevano alla carbonizzazione ed al trasporto. Infine gli artigiani minerari e metallurgici lo utilizzavano.
Un’attività varia ed ampia che determinò una forte immigrazione in valle per operatori destinati a queste attività, oltre che a quelle minerarie, anch’esse in forte sviluppo.
La ribebe. Dal Cinquecento una produzione metallurgica della Valsesia estremamente originale.
REGIS e FANTONI (2023, p. 40) ricordano che col Cinquecento si è diffusa la presenza di fucine in alta Valsesia.
Da quel momento comincia ad essere documentata anche una produzione molto particolare, quella della ribebe, uno strumento musicale tipo scacciapensieri (Figura 14 e Figura 15).
All’epoca, le fucine erano ubicate esclusivamente nei dintorni di Campertogno, Mollia e Riva Valdobbia, ma già alla fine del secolo si erano diffuse fino a Varallo. Qui entreranno presto nell’attività anche le locali famiglie facoltose, fra le quali i D’ADDA, che ritroviamo anche in Valle Anzasca. Erano imprenditori minerari e proprietari di grandi fonderie in Valsesia e fino a Locarno. Spesso venivano affittate ad artigiani locali o provenienti dai centri montani.
…Contemporaneamente si allargava il mercato delle ribebe, che raggiunse molti Paesi europei (Lovatto, Zolt 2019), talvolta sostenuto anche dai maggiori mercanti del periodo. Nei libri commerciali del 1641 del mercante vallesano Kaspar Jodok Stockalper compare la citazione di «ribebi oder trompe» (Imboden 1987- 1997, vol. 1, 34). L’elevato numero di fucine destinate alla produzione di ribebe, l’entità della produzione e l’ampiezza dei loro circuiti commerciali suggerisce un utilizzo di carbone già significativo nel corso del Cinquecento... (REGIS e FANTONI, 2023, p. 40).
Lo sviluppo della produzione di carbone fu molto legato all’industria mineraria e metallurgica, tanto che la influenzerà e ne seguirà le sorti fino ai primi dell’Ottocento. Sviluppo che sarà influenzato, e non poco, dal taglio selvaggio e dai conseguenti problemi ambientali, ma non solo qui.
Figura 22 – Schema di costruzione e funzionamento di una carbonaia.
Innanzitutto era creato il camino, quindi sistemata la legna a strati, con gli spezzoni di tronchi posti in verticale, fino a formare una specie di cupola piena. Era lasciato solo un camino al centro del cumulo. La legna era ricoperta da uno strato di foglie secche, poi da uno strato di rami freschi della medesima essenza usata per il cumulo di legna, poi da uno strato di terra umida e, infine, da uno strato di zolle erbose, col fondo terroso rivolto all’esterno.
Quindi veniva acceso il fuoco regolando la combustione attraverso il camino che serviva anche per comprimere la brace che si produceva. La combustione doveva essere lenta e costante al fine di cuocere (e non bruciare!) adeguatamente e completamente la legna. In questa fase l’areazione e la circolazione del calore era regolata dal carbonaio attraverso i fumaroli, i fori distribuiti lungo le pareti della carbonaia.
Carbonaio, un mestiere girovago…
L’essenza più ricercata era, in montagna, il faggio, ma si ricorreva anche alla betulla, al rovere, al nocciolo, all’ontano. Solo eccezionalmente al castagno.
I carbonai erano descritti generalmente come persone schive, forse per il loro aspetto fuligginoso. Vivevano in genere ai margini della società, anche per il loro carattere vagabondo e vissuto in condizioni precarie. …Francesco Canova … viveva in una capanna così descritta: tettoia, volgarmente baracca di legno … coperta solo al di sopra e da tre lati inserviente a dormitorio e ripostiglio di alcuni oggetti… (REGIS e FANTONI, 2023, p. 46; Figura 16). Andavano dove li chiamava il lavoro e non erano, comunque, molto diversi dai minatori, anch’essi emarginati per il loro vivere dentro, all’interno della terra.
Le regole ed i regolamenti prevedevano delle priorità nel richiedere le autorizzazioni. Le …capanne e baracche necessarie per ricovero degli operai; capanne e baite per il ricovero dei carbonai e deposito del carbone… (REGIS e FANTONI, 2023, p. 46).
Le carbonaie dovevano essere previste in aree senza rischio di incendio e, quando in funzione, essere sorvegliate 24/24 ore.
Era una vita errabonda, lontano da casa per diversi mesi l’anno, almeno sette, quando non erano migranti (ed anche per questo visti con sospetto). Quelli diretti in Valsesia provenivano dalla bergamasca (Val Brembana) e dall’Appennino emiliano, o da Valli più prossime (Val Sessera, Cusio-Orta, Antrona, Comasco), nonché dalla Toscana (quelli diretti in Liguria Orientale). Molti avevano dimestichezza anche con l’attività mineraria, poiché presente, e praticata, nelle loro aree di origine.
È curioso come molti si siano trasferiti, poi, dalla Valsesia nel territorio minerario della Valle Anzasca, durante il Settecento.
La carbonaia: un sistema-impianto produttivo basato su un sapere tramandato
La carbonaia, l’impianto per la produzione del carbone, era allestita in aree comunque prossimali al bosco, per motivi essenzialmente di economia. Erano boschi di essenze specifiche ed idonee alla produzione del carbone. Evidentemente venivano escluse le pinete e le resinose in generale per il loro elevato rischio di incendio, nonché i castagneti, che davano una bassa resa in carbone (4,5-5 q di legno per 1 q di carbone).Per questo motivo i castagneti erano utilizzati solo in casi del tutto particolari.
I boschi idonei erano quelli da legna forte: il faggio e le specie quercine (rovere, cerro, leccio e carpino) che fornivano una resa pari ad ⅓ di materiale impiegato.
La carbonizzazione iniziava con un’essiccazione forzata del legno a circa 150 gradi. In pratica si eliminavano il vapore acqueo e l’anidride carbonica. Quindi venivano trasformate la lignina e la cellulosa, i componenti più abbondanti del legno.
Immagine emblematica del processo produttivo del carbone è rappresentato nella Figura 17.
Attorno all’impianto della carbonaia (Figura 18 e Figura 19) ruotavano gli operatori (i carbunin, i carbonai), i grossi sacchi di carbone prodotto (ciascuno del peso di circa 32 Kg, Figura 20) ed i muli (Figura 21) che in questo caso sostituivano il trasporto operato dalle donne. Qui, il loro utilizzo era limitato alla movimentazione dei sacchi.
Il mulo era l’elemento operativo fondamentale (Figura 17, Figura 21 e Figura 25) e non solo in Lunigiana. Era l’addetto principale al trasporto della legna dal bosco alla piazzola della carbonaia (circolare di 15-20 piedi, pari a 5,50-7,50 metri) e da qui alla strada o al centro più vicini, per la vendita.
La carbonaia ed il processo produttivo, fino alla vendita
La carbonaia era un impianto effimero poiché veniva utilizzata una sola volta.
Concetto fondamentale è che il carbone è legna cotta, non bruciata. E per cuocere la legna occorreva realizzare una struttura apposita: la carbonaia (Figura 22). Il motore di tutto l’impianto era il centro della carbonaia. Era la base del lungo camino o castellina (Figura 23 e Figura 24), cioè una sorta di forno, alimentato con legna da ardere. Attorno a questo camino venivano disposti, con sapienza, gli spezzoni di tronchi e rami, in funzione delle loro dimensioni e qualità. Tronchi di essenze o diametro differenti avevano tempi di cottura diversi ed erano posti in posizioni strategiche (Figura 26). A questo punto bisognava isolare la catasta dall’aria, o meglio dall’ossigeno dell’aria, affinché non funzionasse da falò anziché da forno. Venivano utilizzate delle foglie per ostruire i vuoti fra un tronco e l’altro. Poi tutta la catasta era ricoperta di terra e, in fine, con zolle di terra argillosa umida con cotica d’erba (terra soda impiotata) lasciando le superfici radicate verso l’esterno.
Era il momento di inserire legna trita nel camino e dargli fuoco o inserire direttamente delle braci. In questa prima fase la temperatura interna doveva rimanere intorno ai 150 gradi, per produrre essenzialmente l’essiccazione della legna. In un secondo tempo, oltre a rabboccare le braci o la legna da ardere, erano praticati i fori (fumaroli) per arieggiare in maniera regolata il camino. Operazione estremamente delicata e rischiosa poiché avrebbe potuto incendiare tutto il sistema. Da qui la necessità della continua sorveglianza dei fumaroli. Anche una semplice ventata poteva creare danni. Il camino emetteva calore. Il calore sufficiente e necessario per cuocere i tronchi trasformandoli in carbone. La cottura, regolata dai fumaroli, avveniva dall’altro verso il basso, fino al piano di calpestio. A quel punto la cottura terminava, ed il carbone era pronto.
Non rimaneva che togliere la terra ed i raponcelli (i pezzetti di legno incompletamente carbonizzati), quindi carbonare, cioè separarne il carbone usando lunghi rastrelli (Figura 27). Successivamente veniva insaccato (Figura 20) con il vaglio dei carbonai (un rozzo vassoio di vimini usato come pala).
Infine la pulizia dell’area con lo scornabecco o ginestra dei carbonai o Genista scoparia dalla quale si ricavavano le granate per spazzare (AA.VV., 1884).
I coffinanti, marcatori, spaccantracite, carbonai particolari del porto di Genova
A Genova, nel porto, esiste ancora il testimone (la sede) della Compagnia Portuale per l’imbarco e lo sbarco di carboni minerali, fondata e dedicata a Pietro CHIESA.
La Compagnia, ancora attiva negli anni Sessanta, riuniva i carbonai (i camalli, scaricatori di carbone) che operavano sulle caladde (le banchine) del porto.
Nelle immagini scattate a cavallo del XIX e XX secolo, compaiono sempre con un cappello in testa. Era una protezione che sostituiva l’odierno elmetto. Lo imbottivano per difendersi dalla caduta accidentale dei pezzi di antracite durante il lavoro. In alternativa indossavano, sopra i vestiti, un mezzo sacco di juta a mo’ di cappuccio Figura 30), come quello dei Bauli dell’ardesia o tipo il peggèttu dei cavatori della Val di Vara.
Nelle immagini di fine Ottocento compaiono i diversi tipi di addetti. I coffinanti che camallavano il carbone con le coffe (ceste apposite come quella a sinistra in Figura 31) fin sulle navi (Figura 28, Figura 29 e Figura 30), i sappoei che preparavano le ceste e gli smarcatori, che operavano nelle stive a sistemare il carico (Figura 31). Altre figure erano gli spaccantracite che rompevano i blocchi troppo grossi prelevati dai sacchi (Figura 32) ed i pesatori che ne controllavano il peso.
Questo caporalato durò a Genova più o meno fino al 1889, quando Pietro CHIESA ed altri fondarono, a Sampierdarena, la prima cooperativa di lavoratori del carbone, sulla scia delle camere del lavoro francesi e delle cooperative sociali di Liverpool. Fu un periodo di grande fermento per il movimento cooperativistico in Europa.
Poi, dal secondo dopoguerra il petrolio prese il sopravvento sulla materia prima carbone ed anche per i carbonin iniziò un lento declino, pur inserendosi in altri settori del camallaggio.
Prefettura di Genova, Largo Eros Lanfranco, 1, Genova, città metropolitana di Genova 16121, Italia
Sampierdarena, Genova, città metropolitana di Genova, Italia
Varallo, provincia di Vercelli, Italia
Bibliografia
AA.VV. (1884). Dizionario tecnico dell’Architetto e dell’Ingegnere civile ed Agronomo. Collegio degli Architetti ed Ingegneri di Firenze. Vol. Secondo, Stabilimento tipografico di G. Civelli, Firenze.
BOTTALICO A. (2017). I lavoratori del carbone a Genova. Ascesa e declino di una compagnia portuale. Soc. Italia di Storia del Lavoro.
CUCINI TIZZONI C. e TIZZONI M. (1993). Li perjti maestri. L’emigrazione di maestranze siderurgiche bergamasche della val Brembana in Italia e in Europa (secoli XVI-XVII) «Bergomum», 3, 79-178.
CUCINI TIZZONI C. e TIZZONI M. (2006). Pane e miniera: il ritorno dei perjti maestri. in N. CUCUZZA, M. MEDRI (a cura di), Archeologie. Studi in onore di Tiziano Mannoni, EdiPuglia, Bari, 217-222.
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TIZZONI M. (1988). Gli agenti minerari dei d’Adda a Locarno nel XVII secolo: Costanzo e Benedetto Gervasone Michele Calvi. In Momenti dell’attività mineraria e metallurgica in Valsesia, Club Alpino Italiano, Sezione di Varallo Sesia, Varallo, 11-59 (Monografie del Comitato scientifico, n.s., 1).
TIZZONI M. (1989). La fabbrica del ferro di Locarno Valsesia (Vercelli), in N. CUOMO di CAPRIO, C. SIMONI (a cura di), Dal basso fuoco all’altoforno, atti del I simposio valle Camonica 1988, La siderurgia nell’antichità, Grafo, Brescia, 201-254.