Paesaggi minerari e impatto ambientale (Valle Lagorara, Libiola, Monte Loreto)

Copertina

Copertina – Impatto ambientale indotto da depositi temporanei di materiale ed edifici di servizio

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Lagorara

Fra gli insediamenti estrattivi più antichi occorre menzionare la grande cava a cielo aperto di diaspro della Valle Lagorara (Comune di Maissana, La Spezia; Figura 14), sita a margine del più noto bacino minerario ligure, quello del Tigullio-Val Graveglia (soprattutto per manganese e rame Irame II).
La Valle Lagorara è impostata lungo una faglia orientata N-S (valle tettonica) ed è caratterizzata da versanti a differente acclività in ragione della radice litologica che li costituisce. Versanti a media acclività e morfologia addolcita lungo il fianco destro, in terreni prevalentemente flyschoidi, e versanti fino a sub-verticali in versante orientale per la presenza dei diaspri in giacitura fortemente raddrizzata (Figura 20) e dei soprastanti calcari a Calpionelle (Figura 19; con grotticella sepolcrale; Figura 43).
Dal punto di vista geomorfologico è ancora da segnalare la presenza di alcune frane di crollo ad elementi monogenici (pacchi di strati di diaspro) di dimensione fino ad alcuni metricubi (Figura 15 e Figura 16), anch’essi oggetto di estrazione occasionale di nuclei di diaspro.
L’area archeologica, archeomineraria, si è conservata poiché geograficamente molto interna, defilata ed a vocazione esclusivamente silvo-pastorale (castagneti e pascolo per ovi-caprini). All’epoca degli scavi archeologici degli anni Novanta si trovava ancora in posizione marginale rispetto alle moderne vie di comunicazione, perfino secondarie.
Unica eccezione sono state due brevi fasi di ricerca mineraria per minerali cupriferi e di manganese, esplicatasi con l’apertura di cantieri in sotterraneo (Figura 17 e Figura 18). La prima ricerca ha coinciso con la grande vitalità che ha caratterizzato il periodo a cavallo della metà dell’ottocento in tutta la Liguria Orientale. Il secondo durante la vita della centenaria concessione della miniera di Gambatesa.
Il sito archeominerario consta di diversi fronti di estrazione (Figura 19) e di un atelier per la prima sbozzatura dei manufatti. I fronti di estrazione sono stati riconosciuti in realtà differenti: sia in corrispondenza dei blocchi di crollo facilmente e comodamente accessibili, sia lungo le pareti subverticali rappresentate dai piani di strato fortemente raddrizzati (Figura 20). In quest’ultimo caso l’accesso avveniva attraverso piccoli terrazzamenti artificiali e, probabilmente, mediante pertiche o rudimentali scale.
Sui fronti erano estratti piccoli nuclei idonei alla scheggiatura.
Questa avveniva, secondo la ricostruzione archeologica (vedi filmati qui), mediante percussione utilizzando mazzuoli (litici in ferrogabbro o eclogite; Figura 21) variamente immanicati. I nuclei erano poi solo sbozzati in sito, preferibilmente presso alcuni ripari  (Figura 22 e Figura 23) presenti poco lontano dai fronti di estrazione . Non veniva proceduto alla produzione dei manufatti finiti (punte di freccia e raschiatoi; Figura 24) in un’ottica di economia produttiva già molto avanzata. In realtà il rischio di rottura in fase di approntamento del manufatto finale era molto elevato come dimostrano i pochissimi manufatti ritoccati rinvenuti. Di conseguenza era praticata essenzialmente la produzione ed il commercio dei semilavorati.
In Valle Lagorara si é svolta un’attività che potremmo già definire di tipo industriale, perdurata nell’arco di alcune centinaia di anni e con presenza di una grande quantità di soggetti specializzati (minatori e artigiani).
Nella realtà dell’epoca l’impatto ambientale è stato certamente incisivo. La valutazione eseguita con gli indici attuali appare, invece, del tutto ininfluente. Gran parte dei blocchi presenti in fondovalle sono il risultato di crolli del tutto naturali, gravitativi. Solo una minoranza sono stati indotti dall’attività industriale. I due-tre millenni di abbandono della cava-atelier hanno consentito una rinaturalizzazione pressoché completa del territorio. Solo il casuale rinvenimento di schegge ed abbozzi di lavorazione ha suggerito di avviare ricognizioni archeologiche, ricerche di superficie e campagne di scavo stratigrafico, giungendo alla riscoperta ed all’interpretazione corretta del sito.

Monte Loreto

Più o meno coeve alla vita della cava di Valle Lagorara sono state le attività estrattive condotte in altri due importantissimi siti archeominerari della Liguria Orientale, quelli delle miniere di Monte Loreto e di Libiola.
Ambedue hanno avuto come oggetto la coltivazione di minerali cupriferi operata parzialmente in sotterraneo e parzialmente a cielo aperto. 
Ancora, in ambedue i siti, l’attività mineraria è stata attiva in epoche e fasi successive, nonché con modalità differenti. La tipologia e la dimensione dei due giacimenti hanno condizionato la vita delle miniere e lo svolgimento delle attività di estrazione, trattamento e metallurgiche. Di conseguenza, anche l’impatto ambientale prodotto è risultato molto differente. In qualche caso queste attività hanno intercettato ed obliterato quelle che erano le tracce più antiche, com’è avvenuto per alcune gallerie medievali a Libiola (Figura 31).

A Monte Loreto, la conservazione delle emergenze archeominerarie è stata possibile grazie alla concomitanza di differenti fattori:

  • la tipologia del giacimento (filoniano);
  • l’abbandono delle mineralizzazioni sfruttate in epoca più antica in ragione delle possibilità tecnologiche: dalle antiche trincee (Figura 4 e Figura 30), poi riprese in seguito (Figura 32), al moderno complesso di gallerie, pozzi, discenderie e rimonte (Figura 33);
  • la parziale obliterazione delle tracce di antica coltivazione (riempimento, naturale o antropico dei vuoti di coltivazione);
  • la ripresa in posizione differente e leggermente defilata delle coltivazioni ottocentesche in ragione di ben precise scelte metodologiche.

La presenza di strutture filoniane nei giacimenti dell’area ofioltica ligure orientale è nota altrove, ma solo come accessoria. E si manifesta soprattutto con apofisi collegate alle forme massive che variano da arnioni di pochi centimetri di diametro (Miniera dei Bagari, Monterosso al Mare), ad ammassi mammellonari di migliaia di metri cubi (Libiola; Copertina e Figura 25).
Nel caso specifico di Monte Loreto gli antichi minatori hanno seguito i filoni mineralizzati che presentano giacitura con andamento prevalente sub-verticale (Figura 27, Figura 28 e Figura 30) e spessore compreso fra pochi centimetri ed un metro, inseriti nei basalti a pillow lavas talvolta brecciati.
In superficie i filoni sono stati asportati operando in trincea, poi sono stati seguiti necessariamente con pozzi sub-verticali.
Non sempre è stato possibile, per gli antichi minatori, coltivare completamente le mineralizzazioni ed i cantieri ottocenteschi hanno potuto essere impostati al di sotto delle coltivazioni antiche, con minime interferenze con le precedenti.
Scarti minerali (Figura 29), ma soprattutto ogive o mazzuoli (prevalentemente in arenaria; Figura 5, Figura 34, Figura 35 e Figura 36) o frammenti ceramici (Figura 37) hanno consentito una prima datazione dei cantieri.

immagine citata nel testo

Figura 25 – Miniera di Libiola (Sestri Levante). L’impatto ambientale di uno dei grandi scavi a cielo aperto ottocenteschi, operati dalla gestione inglese.

La conservazione delle emergenze archeominerarie (Libiola)

A Libiola, entroterra di Sestri Levante, l’origine della coltivazione è collocata intorno a 3500 anni avanti Cristo. L’attestano due analisi al radiocarbonio eseguite su un manico di piccone (Figura 6) ricavato da un ramo di quercia. L’oggetto è stato rinvenuto, assieme ad altri attrezzi lignei nel secolo scorso, all’interno di un antico cunicolo intercettato durante un avanzamento in galleria.
La coltivazione antica sarebbe avvenuta mediante pozzi di estrazione collegati da cunicoli: si tratta di recenti indizi messi in luce a seguito di una frana.
Le fasi più antiche dell’attività mineraria hanno inciso solo marginalmente sull’ambiente, nonché sul giacimento.
Al contrario di quello di Monte Loreto, il giacimento di Libiola è molto esteso. Si tratta di un giacimento massiccio, costituito da diversi ammassi mammellonari, di dimensioni comprese fra pochi decimetri cubici (Figura 38 e Figura 41) e centinaia di metri cubi (Figura 25, Figura 31, Figura 39 e Figura 40), con apofisi. Le mineralizzazioni sono inserite al contatto fra serpentinite fortemente laminata e basalti a struttura breccioide in elementi sub-sferici. Il minerale si inseriva irregolarmente nelle masse litoidi sotto forma di ammassi, vene, noduli e concentrazioni anche di dimensioni abnormi (come la Lente Brown).
Le fasi di attività che hanno indotto il maggiore impatto sull’ambiente sono state quelle più recenti, ottocentesche. La coltivazione è stata impostata con creazione di una ventina di livelli a differente quota (Figura 42), connessi con discenderie ed almeno 7 pozzi principali (oltre ad una trentina di secondari) collegati ad un ribasso di carreggio con tracciato Decauviiie). Lo sviluppo complessivo dell’architettura mineraria moderna è stato stimato in circa 5000 metri.
Gli impianti di stoccaggio e trattamento del tout-venant sono stati realizzati in diverse zone della concessione.  
Ma la fase di impatto più radicale è stata quella di passaggio dal sistema di coltivazione in sotterraneo a quello a cielo aperto, più economico, ma che ha comportato la creazione di ampi vuoti di coltivazione (Figura 25, Figura 31, Figura 39 e Figura 40), oltre ad un’enorme discarica di sterile (Figura 2). Ne è conseguita una profonda trasformazione della morfologia e del paesaggio. In conseguenza dell’incremento produttivo sono stati necessari ampliamenti delle infrastrutture pertinenziali e stabilimenti di trattamento.
Ultima fase, quella relativa all’ultimo dopoguerra, è stata la predisposizione di un impianto per la produzione del cosiddetto rame di cementazione che consisteva nel recupero di piccole quantità di sali di rame disciolti nelle/dalle acque di percolazione delle discariche o provenienti dalle gallerie abbandonate, facendole passare su un tappeto di trucioli di zinco o di ferro. Reazioni chimiche del tutto naturali ed ancora evidenti con le colorazioni delle acque di scolo (Figura 44) o le fuoriuscite di solfuri e solfati anche gassosi, dalle gallerie.
Dismessa l’attività mineraria la riconversione più originale immaginata per il sito di Libiola è stata la destinazione a discarica di RSU, ceneri di centrale termoelettrica o altro ancora. Il tutto è stato, in seguito, bonificato nella speranza di nuovi utilizzi…

Testimoni della modifica ambientale

Rispetto ai primi due casi descritti, l’impatto ambientale prodotto a Libiola è stato molto più incisivo, protratto nel tempo e, soprattutto, non solo minerario.
Le modifiche ambientali indotte dall’attività estrattiva, di trasformazione e di riconversione degli ultimi centocinquant’anni è stata anche la più rapida. Inoltre ha pure inglobato ed obliterato molte emergenze storiche ed archeologiche. Non per questo è testimone meno importante dell’evoluzione dell’arte mineraria, della storia metallurgica e, soprattutto, del pensiero culturale in rapporto all’ambiente ed alla convivenza con gli elementi che esso mette a disposizione.
Non sono da meno le strumentalizzazioni.
In una certa epoca si è diffuso l’allarme inquinamento. Cioè il territorio che comprendeva il giacimento di Libiola era inquinato da metalli pesanti. È inutile argomentare che un giacimento di solfuri misti, quindi caratterizzato da una moltitudine di minerali, metalli e differenti combinazioni fra loro, rilasci elementi chimici nel suolo e nelle acque, comprese quelle che gli scorrono in superficie. E che questo meccanismo abbia indotto il cosiddetto inquinamento, non in coincidenza alla coltivazione mineraria, ma con la sua semplice presenza. Semmai si può ipotizzare che le gallerie ed i vuoti di coltivazione abbiano esposto il territorio ad una maggiore circolazione idrica o dell’aria.
In Liguria Orientale sono altresì diffuse un’altra moltitudine di emergenze minerarie legate alle attività estrattive sviluppatesi dal Medioevo e delle quali sono rimaste tracce sia materiali che documentarie.
La stratificazione dello sfruttamento minerario nel Tigullio è estremamente variegata e complessa. In Figura 13 sono indicati i materiali che hanno avuto maggiore rilevanza storica mentre non sono stati menzionati, per motivi di spazio, quelli impiegati fin dal medioevo in edilizia (calcari e ardesia per le coperture, calcari per le calci; arenarie per cantonali, elementi architettonici ed ornamentali; scaglie di litologie varie per le murature, muretti reggifasce; terre di gabbro per la ceramica rustica e corrente) e che pure hanno concorso alla costruzione di quelle emergenze di architettura culturale e spontanea che costituiscono un indubbio corollario di grande valore.

Conclusioni

Osservazione fondamentale è quanto l’attività mineraria protrattasi dalla preistoria all’epoca attuale conferisca al comparto minerario del Tigullio un carattere di peculiare unicità a livello nazionale, e forse europeo, oltre ad un profondo interesse scientifico.
Negli anni è stata tentata una rivalutazione del patrimonio culturale legato sia allo sfruttamento delle materie prime che alla memoria delle tecnologie estrattive di lavorazione e di trattamento metallurgico. L’idea era quella di costituire un motivo di interesse turistico ed economico per gli ambiti territoriali più interni e non inseriti nei circuiti principali della fascia costiera. Probabilmente non c’è stata la capacità di proporre un pacchetto di offerte turistiche allettanti, basato sulle realtà archeominerarie della regione. Eppure i timidi tentativi del Museo dell’Ardesia con i sentieri della Pietra Nera, del Museo Minerario di Gambatesa, della Miniera di Monte Loreto e dei percorsi attrezzati di Valle Lagorara, continuano a suscitare e dimostrare notevole l’interesse didattico.
È mancata la coesione e sovrapposizione di intenti con le realtà territoriali locali. 
E gli esempi non mancano sia in Italia che in Europa:

  1. le Miniere della Valle di Cogne – Aosta;
  2. i magli ad acqua di Bienno – Brescia;
  3. il petrolio di Fornovo di Taro – Paia;
  4. l’allume di Allumiere e Tolfa – Roma;
  5. la Real Fonderia di Atina – Frosinone;
  6. le ferriere dei Borboni di Bivongi, Pazzano e Stilo – Reggio Calabria;
  7. il Bacino Minerario Sardo – Iglesias e Cagliari;
  8. il Distretto minerario della Renania;
  9. il Distretto carbonifero della Rhur in Germania;
  10. le miniere di sale Wieliczka a Cracovia;
  11. le miniere di salgemma di Bex in Svizzera;
  12. e non solo…

Bisogna ricordare che il bacino archeominerario del Tigullio (Provincie di Genova e La Spezia) si differenzia da tutti gli altri ricordati per l’assoluta originalità di abbracciare un periodo di sfruttamento di cinque millenni (Figura 13) all’interno del quale si sono evolute sia le tecniche minerarie e metallurgiche, ma anche l’interesse industriale verso materie prime la cui scelta è stata possibile grazie alla varietà disponibile.

Bex, Vaud, Svizzera

Cracovia, voivodato della Piccola Polonia, Polonia

Cagliari, città metropolitana di Cagliari, Italia

Iglesias, provincia del Sud Sardegna, Italia

Stilo, città metropolitana di Reggio Calabria, Italia

Atina, provincia di Frosinone, Italia

Tolfa, città metropolitana di Roma Capitale, Italia

Fornovo di Taro, provincia di Parma, Italia

Bienno, provincia di Brescia, Italia

Cogne, Valle d'Aosta, Italia

Masso, Castiglione Chiavarese, città metropolitana di Genova, Italia

Libiola, Sestri Levante, città metropolitana di Genova, Italia

Santa Maria, Maissana, provincia della Spezia, Italia

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