Copertina: l’isola del Tino in una vecchia immagine in bianco e nero.
Devozione e culto, splendore e oblio
Potremmo dire che Venerio, l’eremita che fuggì dal mondo su un’isola deserta, ha avuto più vite: la devozione ed il culto per il santo del Tino hanno mostrato nei secoli momenti di splendore e altri di ombra, di oblio, e quindi anche il modo di narrarlo, cioè la legenda, di sentirne l’autorità santorale è cambiato, talvolta radicalmente, rispondendo alle (anche nuove) aspirazioni dei fedeli, e della società in cui essi vivevano.
Il marchese Oberto III della dinastia obertenga (linea adalbertina) nel 1057 dette il suo assenso signorile e la sua protezione alla istituzione di un insediamento monastico di regola benedettina sull’isola del Tino (Figura 1), dedicato a S. Maria e S. Venerio. Veniva così accolta e sostenuta, con la creazione di un cenobio che sarebbe divenuto potente, un’antica tradizione reliquiaria, che era stata fonte di grande pietas religiosa nell’ultimo periodo della dominazione bizantina sulla Maritima Italorum (VI- VII secolo d. C.), ma che era lentamente decaduta.
Al Tino aveva vissuto la sua esperienza ascetica e contemplativa Venerio. Era morto sull’isola in solitudine ed era stato sepolto dalle mani degli angeli, si narra, nella nuda terra. Un vescovo di Luni, Lucio, dopo un sogno rilevatore, si sarebbe recato sull’isola e, scavata la tomba, avrebbe fatto traslare i resti. Una chiesa sarebbe stata poi costruita sul luogo santo.
Il rinnovamento religioso promosso dei marchesi prima, e poi soprattutto dei signori di Vezzano che dominavano Portovenere e le isole, portò, come in molti altri luoghi sacri, ad un vero e proprio revival del culto e della devozione, sostenuti dal nuovo cenobio, che se ne faceva tramite e garante, sotto il patrocinio dei signori territoriali.
Venerio
Ma chi era Venerio e come abbiamo ricevuto le notizie sulla sua vita?
Le fonti scritte che ci sono pervenute sono molto posteriori all’esistenza terrena dell‘eremita. I biografi ci dicono essersi svolta al tempo del papa Gregorio Magno (590-604) e dell’imperatore Foca (602-610), anche se le date tradizionalmente assegnategli sono 560-630.
Solitamente si fa riferimento all’edizione della Vita curata dai Bollandisti negli Acta Sanctorum, condotta nel 1753 da Costantino Suysken (Figura 2).
Le testimonianze scritte più antiche (datate entro la prima metà del Mille) sono tuttavia alcuni codici liturgici di Reggio Emilia, dove il corpo del santo fu traslato, probabilmente nel IX secolo, riportanti la Vita e i Miracoli.
L’autore della legenda di Venerio non si nomina, afferma di averla appresa da documenti e da vecchi religiosi; è piuttosto colto, inserisce citazioni evangeliche, conosce alcune scorrerie saracene nel territorio lunense. Lo schema non è dissimile da quello di altre vite eremitiche. I miracoli fatti dal santo prima e dopo la morte sono episodi simbolici che spesso si ripetono, che discendono o da modelli biblici o da strutture tipiche dell’immaginario medievale. La redazione del racconto agiografico si può porre fra il X e XI secolo.
La vita ed i miracoli di Venerio
La Vita di Venerio può esser divisa in 4 periodi: la scelta eremitica del deserto insulare, la fuga in Corsica, la morte solitaria al Tino e la seguente scoperta del corpo, le traslazioni dei suoi resti. Numerosi sono i miracoli raccontati, sia in vita che dopo la morte. Egli non è un martire, ma un confessor Dei, un Vir Dei, che attesta la sua fede con una dedizione totale a Dio e la scelta di una esistenza vissuta nella penitenza e contemplazione. I suoi interventi miracolosi sono mossi soprattutto dalla pietà.
Secondo la Vita, nato alla Palmaria (o forse a Portovenere) da nobile famiglia, avrebbe fatto gli studi risultando di gran lunga il migliore, per poi esser ordinato sacerdote. Forse proprio per le sue qualità che lo avrebbero potuto indurre alla superbia, decide di abbandonare la vita nel secolo per non perdere quella eterna. La sua scelta è perciò quella di una esistenza anacoretica (dal greco anakorein = ritirarsi, fuggire), che intende condurre sull’isola del Tino. È la scelta di quell’eremitismo detto insulare che dalla Provenza alla Toscana già altri avevano fatto (Martino, Caprasio, Onorato, Mamiliano). Nella crisi sociale e morale che si era aperta fra V e il VI secolo per il crollo economico delle città, le carestie ed i terremoti, le invasioni barbariche, il dubbio delle coscienze, molti uomini e donne di fede avevano preferito la loro strada di elevazione spirituale lontano dal mondo e dai propri simili. Scelsero anche i deserti occidentali insulari, cioè quei selvaggi, isolati, boscosi isolotti fronteggianti le coste della Provenza, la Liguria e l’area tirrenica (Figura 3), che offrivano, pur nella mutata geografia di ambiente, circostanze di vita analoghe a quelle eremitiche dei deserti orientali e le necessarie dure condizioni di esistenza. Dopo la loro morte essi divennero esempi per la Chiesa.
I miracoli interessano subito la sua vita solitaria sull’isola, dove, nascosto in una caverna, si ciba di erbe e pomi, ha però la compagnia di un cane che lo avverte di chi si presenta. Un uomo, Agrestio, ispirato da Dio gli porta una zappa e un sestario (circa 45 cl) di orzo). Piantatolo ne ha un raccolto prodigioso in brevissimo tempo (più di 87 litri). Più tardi, nelle brughiere della Corsica (Figura 4), dove per 40 giorni (altro modello di vita tratto dal Nuovo Testamento) si ciba solo dei frutti del mirto, un corvo, tema ricorrente nelle storie di santi, gli recherà ogni giorno mezzo pane e frustuli di carne.
E’ possibile che questi episodi siano la metafora delle offerte dei fedeli che si recavano a trovarlo.
Il drago
Nella vita di Venerio domina il mare: acque, spiagge, isole.
Tutti quelli che si recano da lui lo fanno usando imbarcazioni, particolare che viene con insistenza ribadito dall’agiografo. Egli resuscita poi due annegati (un ragazzo ed mercante corso) ed un marinaio colpito da una pietra, mostrando grande, umana, compassione e un completo consegnarsi a Dio. Tali interventi miracolosi, come quelli di suscitare tempeste o propiziare il vento per la navigazione, sono frequenti in vite di santi collegati al mare. Ma la storia più clamorosa è quella della cacciata del drago. Il mostro infatti aggredisce ed inghiotte navigli che si recano a Luni, la capitale civile e religiosa, che dista dal Tino otto miglia. I cittadini, preoccupati, chiedono l’aiuto del vescovo Lazzaro che per tre volte (il numero è simbolico) invia un arcidiacono a chiedere l’intervento di Venerio, il quale per due volte oppone un rifiuto, motivandolo con la sua inadeguatezza. Solo dopo tre giorni di preghiera accetterà il difficile incarico. Si reca dunque dove vive il drago, luogo che non viene precisato nel racconto e che l’erudito Lamorati identificherà con il promontorio del Corvo, presso la Magra. E’ comunque una scogliera ripida perché, scendendo, il santo lascia le sue impronte sulla roccia. Dopo avere inutilmente ordinato al drago di immergersi negli abissi in nome del vescovo, la terza volta lo chiede nel nome della Trinità ed il mostro, uscito da sotto un gigantesco sasso che si spezza, sprofonda nel mare.
Il confronto con il drago è il simbolo della lotta fra bene e male. Il male può forse sottintendere una connotazione storica: lotta contro navi nemiche saracene, oppure contro l’eresia ariana, contro il paganesimo, ma rimane pur sempre l’immagine della bestia malvagia che sale dal mare, come descritto nell’Apocalisse. Venerio, poi, non è un santo sauroctono, cioè uccisore di draghi, lo sono invece San Michele, San Giorgio, non è neppure un catturatore quali Santa Marta e Margherita. Come San Marcello, vescovo di Parigi fra il IV e V secolo, lo scaccia, per sempre.
La fuga in Corsica e la morte
I fedeli già si recavano da Venerio per porgere offerte ed impetrare la salute, tanto che l’agiografo parla di una lettera inviata all’eremita dal papa Gregorio Magno, venuto a conoscenza della sua fama. Dopo la storia del drago Venerio capisce di non poter più vivere in quella notorietà che aveva rifiutato anni prima, sale perciò su una nave e fugge in Corsica, da cui tornerà quando avrà la premonizione della propria morte. Otterrà il passaggio di ritorno su una nave che va in Sardegna per commercio solo dopo aver suscitato una tempesta che non consente all’imbarcazione di lasciare la terraferma.
Si è supposto che tale parte della legenda sia un’aggiunta posteriore, determinata dalla grande espansione in Corsica, specie in Balagna, delle proprietà fondiarie con chiese donate al monastero (clicca qui). Sono donazioni provenienti, fra il secolo XI e il XII, soprattutto dagli Obertenghi, ma anche dai dòmini corsi, come i signori da Pino, quasi a giustificarne la motivazione con l’agiografia. Tuttavia, l’esilio corso di Venerio spiega logicamente la piena solitudine della sua morte avvenuta al Tino e la sepoltura ad opera soltanto delle mani degli angeli, in un giorno che si riconosce nel 13 settembre.
Solo dopo diversi decenni il vescovo di Luni Lucio per impulso divino si recherà a cercarne la sepoltura, scaverà con le sue mani guidato da un profumo di oli essenziali che esce dalla tomba: è il 1° di maggio.
Lucio costruisce una chiesa sulle spoglie, probabilmente deposte in un più idoneo sepolcro, un’arca di marmo, e vi stabilisce custodi che curino il culto. Poiché non vi è acqua, una fonte sgorga presso l’altare.
Gli scavi archeologici dei primi anni Sessanta hanno messo in luce la struttura di una piccola basilica ridotta alla sola parte absidale, ampliata nel secolo X con una seconda abside, dando inizio così all’edificazione nel territorio delle chiese biabsidate. Sarebbe questa la prima testimonianza altomedievale del culto.
La zona archeologica
Spesso una tradizione sepoltuale si legò alle chiese divenute reliquiari di un corpo santo. Anche al Tino troviamo una serie di ricostruzioni di edifici, direi talvolta caparbie, anche in presenza di un sedime geologico non sempre idoneo (clicca qui). Messe in luce in alcuni casi soprattutto dagli scavi archeologici, sottolineano una continuità ideale, istituzionale e sacrale fra l’alto medioevo e, particolarmente, il periodo dopo il Mille.
La zona archeologica (Figura 5) si articola nei resti della chiesa altomedievale ampliata con un’absidiola (sec. VII – X), nella chiesa protoromanica (metà sec. XI) con sepolture (XIII secolo) ed il piccolo chiostro (fine XI- XII secolo), decorato da colonnine anche in marmo bianco di reimpiego e archetti intrecciati. Vi sono anche una cisterna, un refettorio medievale (ma profondamente restaurato) e la cosiddetta chiesa olivetana (XV- XVI secolo).
La chiesa protoromanica ad una sola navata a sviluppo verticale, con la facciata decorata da un’ampia finestratura, è rimasta priva dell’abside. La volontà di porre la nuova chiesa, assai più grande, sui resti dell’abside della più antica, considerata la chiesa costruita dal vescovo Lucio, ha creato gravi dissesti.
Le traslazioni e la fine del culto
Le spoglie di Venerio non sarebbero invece rimaste nell’isola. I secoli dell’espansione mussulmana nel Mediterraneo, soprattutto il IX secolo, marcarono i luoghi santi con razzie e furti e scempio di reliquie. Le traslazioni di corpi ebbero allora lo scopo di metterli al sicuro, anche con un trasporto verso l’interno.
La, o meglio, le traslazioni sarebbero state in una chiesa in Antoniano, secondo un documento conservato nel monastero, l’attuale pieve di Migliarina (Figura 6). Secondo il Leggendario di Pietro Calò, invece, ad opera del vescovo Lentecario in una chiesa in Sarzano posta presso la Magra. Una lettura recente, di Eugenio Susi, identifica in San Maurizio, presso la Magra, la chiesa, oggi scomparsa, della deposizione in terraferma. La traslazione non compare invece nella tradizione genovese, specie quella raccolta da Jacopo da Varagine, quasi si volesse artatamente far credere che il corpo fosse rimasto nell’area insulare poi dominata da Genova.
Al tempo di Ludovico il Pio (814- 840), forse nell’816, le spoglie sarebbero poi state portate dal vescovo Apollinare a Reggio e riposte nella chiesa di San Pietro. Alcuni studiosi tendono invece a portare la datazione del trasferimento del corpo di Venerio agli inizi del secolo XI. A Reggio, insieme con San Prospero, Venerio ha un culto ininterrotto che lo rende compatrono della città. La sua statua è sulla facciata del Duomo.
Per quanto il monastero del Tino e il distretto di Portovenere passassero fra il 1133 ed il 1160 sotto l’Arcidiocesi e il Comune di Genova, il culto di Venerio rimase radicato nella Diocesi di Luni, grazie anche alla basilica di S. Venerio a Migliarina, poi elevata a pieve: il suo nome è con quello di altri due protovescovi lunensi, unici santi locali, nel calendario liturgico dei canonici nella prima metà del Trecento.
Con il Trecento si manifestò, però, anche per il cenobio di San Venerio quella crisi che coinvolse buona parte del mondo benedettino e il monastero, ormai quasi deserto di confratelli, venne affidato da papa Eugenio IV nel 1432 alla Congregazione Olivetana, in particolare a San Gerolamo in Quarto di Genova. Qualche decennio dopo l’ente si ritirava nell’interno del seno delle Grazie, dove si era costruito un nuovo monastero, in cui la devozione alla Vergine Maria andò soppiantando l’antico culto dell’eremita (Figura 6).
Il lento declino cultuale dell’isola, che mantenne però coltivi arborei e cave di portoro, trovò il culmine dopo la promulgazione nel 1798 della Legge sulla soppressione delle congregazioni monastiche. Prima dato in enfiteusi, poi venduto, il Tino con il Tinetto divenne infine proprietà della famiglia Celle di Porto Venere, che si era schierata fin dall’inizio con la nuova amministrazione della Repubblica Ligure e poi dell’Impero francese. Nel giugno 1864 le isole del Tino e Tinetto furono periziate per l’acquisto in causa di espropriazione, in funzione del nuovo ruolo militare e della conseguente fortificazione del Golfo, nel quadro della costruzione, a partire dal 1861, dell’Arsenale Militare alla Spezia
La Pro Insula Tyro
Dopo le due guerre mondiali che avevano portato attività di miglioramento della difesa costiera per la Piazza spezzina e anche sull’isola (Figura 7), nei primi anni Cinquanta crebbe il desiderio di ristabilire il culto di san Venerio nel golfo della Spezia. Si sarebbe potuto, almeno nell’anniversario della morte (il dies natalis, il 13 settembre), consentire alla popolazione il pellegrinaggio al luogo santo, con l’accesso all’isola del Tino, affidata alla Marina Militare. La fondazione nel 1956 della Pia Unione Pro Insula Tyro, sotto l’egida pastorale del vescovo diocesano, mons. Giuseppe Stella, e grazie alla tenace e generosa attività di uomini di cultura e di fede, creò anche una nuova agiografia.
La nascita di questo movimento di pietà religiosa produsse importanti risultati anche in campo storico- archeologico, poiché condusse al restauro delle superstiti strutture monastiche e alle parallele campagne di scavo nell’isola, che misero in luce l’attuale area archeologica (Figura 8) e portarono alla creazione di un antiquarium, oggi presso il faro, e di una piccola biblioteca (Figura 9).
Ma soprattutto il coronamento di questa azione fu il ritorno di una parte delle sacre reliquie nella diocesi spezzina.
Nel settembre 1960, il cranio di san Venerio, custodito in un reliquario antropomorfo, da Reggio Emilia fu condotto al Tino (Figura 10), a seguito di lettere pontificie in forma brevis del 3 settembre 1960, emanate dal pontefice Giovanni XXIII (Figura 11). Un frammento del cranio era stato concesso nel 1708 a Reggiolo, dove il culto del santo è attestato già dalla prima metà del Mille.
Il 24 ottobre 1959 il pontefice Giovanni XXIII con altro breve (Haud raro) aveva nominato San Venerio patrono del Golfo Lunensis seu Spediensis. Aveva anche dato mandato per rettificare i confini della diocesi della Spezia-Sarzana-Brugnato, includendovi, oltre al Tino e alle altre due isole, Portovenere, dal XII secolo parte dell’Archidiocesi di Genova, dal 1892 in Diocesi di Chiavari.
Le ultime scoperte
Numerose pubblicazioni, in parte storiche ed archeologiche, così come orazioni e perfino opere teatrali, fecero meglio conoscere la legenda santorale e il cenobio. Si venne creando quella nuova agiografia, in cui ai miracoli attribuiti a Venerio dai manoscritti reggiani di X- XI secolo, si aggiungevano nuovi episodi, come l’invenzione della vela latina e l’accensione di fuochi sull’isola per la salvezza dei naviganti (Figura 12). Nel 1961 il pontefice nominò il santo Patrono dei fanalisti civili e militari d’Italia. Nelle celebrazioni del 1964 si ebbe la prima benedizione delle imbarcazioni dal molo dell’isola.
Nel 1989 è stato compiuto, in concomitanza di un consolidamento conservativo, lo studio antropologico dei resti scheletrici di San Venerio custoditi nel reliquiario. L’opera del dott. D. Ronco e dei prof. G. Fornaciari, e F. Mallegni, che ci hanno fornito informazioni sulla alimentazione, malattie e caratteristiche fisiche del santo, non contrastanti con la legenda medievale (Figura 13). Nel 2013 la Curia Vescovile infine ha promosso una ricostruzione, con moderni criteri, del volto del Santo, ad opera dell’antropologo forense prof. Matteo Borrini (Figura 14).
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Mille grazie ottimo articolo